L’intervista intera è disponibile sul sito dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna.
Giuseppe Lavalle è esperto contabile e revisore legale dei conti, appartiene alla categoria dei dottori commercialisti ma è anche giornalista pubblicista e dedica particolare attenzione alle questioni del lavoro giornalistico “non dipendente”.
Questa conversazione entra nel vivo di alcuni temi affrontati durante il seminario Fpc Lavoro giornalistico tra autonomia e subordinazione: aspetti fiscali e giuslavoristici, un incontro-confronto promosso dall’Odg regionale che, oltre al significativo contributo di Lavalle, ha proposto relazioni, analisi e riflessioni di particolare interesse di Luca Boccaletti, Giovanni Rossi, Michele Campaniello, Pietro Bufano.
Giornalisti web aveva già deciso di dedicare un dossier al cosiddetto lavoro “autonomo”. Ma il recente Rapporto di Lsdi (Libertà di stampa diritto all’informazione) e il seminario tematico al quale sei intervenuto hanno ribadito l’urgenza di affrontare una questione così cruciale per la professione giornalistica.
«Questo corso Fpc potrebbe essere ripetuto anche in altre città della regione, magari entrando nello specifico di questioni determinate. È importante perché è nato sul territorio e ha coinvolto professionisti che lavorano in Emilia-Romagna. Seminari di questo tipo aiutano a focalizzare meglio le difficoltà dei giornalisti “non dipendenti” che non hanno la sicurezza del lavoro, sono pagati male e contrattualizzati peggio e in più devono gestirsi un profilo da autonomo complesso e con dei costi. Come giornalista pubblicista mi sono occupato di vari ambiti, ho scritto articoli su questioni fiscali e tributarie per riviste del settore. Ma la riflessione che ho fatto e che mi ha spinto a occuparmi delle problematiche dei giornalisti “non dipendenti” è che la mia attività di libero professionista, quindi di iscritto all’Ordine dei Commercialisti, ha le stesse criticità dell’attività dei giornalisti professionisti lavoratori autonomi. Durante i tre anni di tirocinio obbligatorio e finché non mi sono messo in proprio collaboravo con uno studio professionale ma di fatto era come se fossi un dipendente perché utilizzavo la struttura dello studio, avevo un orario di lavoro e mi veniva pagato un fisso mensile. Però ero un lavoratore autonomo che emetteva fattura e malattia, tasse, previdenza erano a carico mio. Pari pari l’attività che svolgono molti giornalisti cosiddetti “autonomi”, che lavorano nelle redazioni o per le redazioni con mezzi tecnici forniti dal committente: professionisti che scrivono articoli, realizzano servizi, confezionano notizie per una testata come se fossero dipendenti ma senza alcuna tutela, senza nessuno di quei diritti che hanno i dipendenti».
Quanto hai detto evidenzia che si continua a definire lavoro “autonomo” l’attività professionale di giornalisti che nella maggior parte dei casi non hanno scelto l’autonomia. In passato anche in Italia esistevano freelance autorevoli in ambito giornalistico, ma adesso temo siano pochi i veri autonomi e quindi sarebbe più corretto definirli “non dipendenti” o “diversamente contrattualizzati”.
«Spesso non hanno neanche un contratto, la collaborazione che instaurano con un editore o con qualunque altro committente non viene regolata dal contratto giornalistico. Poiché non ci può essere un vincolo di subordinazione, non c’è un vero e proprio contratto, al massimo ci può essere un incarico professionale, che significa “ti dò un incarico per svolgere un certo lavoro e te lo pago ics, poi puoi svolgere quel lavoro alle quattro di notte a casa tua o in Piazza Maggiore”. È questa l’autonomia? Dal punto di vista fiscale, per esempio per quanto riguarda l’Irap (l’imposta sulle attività produttive), si presume ci sia un’autonoma organizzazione ovvero che una persona abbia un ufficio dove svolge la propria attività con un contratto di locazione, una segretaria, una postazione, una struttura autonoma. E non che utilizzi la struttura del suo stesso committente».
Qui sta la faglia. Quel 65 per cento di giornalisti che ha fotografato il Rapporto 2015 di Lsdi è la fetta grossa di chi fa informazione in Italia. Come ha sottolineato Giovanni Rossi del sindacato, la restante percentuale è costituita da direttori, capi di redazione, cioè da quei giornalisti dipendenti che fanno la cosiddetta cucina, il desk, ma in realtà oggi l’informazione viene prodotta da giornalisti che non hanno una posizione subordinata.
«Infatti. Come ha detto l’avvocato del lavoro Michele Campaniello, bisogna rintracciare quegli “indici sussidiari” che permettono di evidenziare che i cosiddetti “autonomi” in realtà non lo sono. Quando l’80 per cento del reddito di un collaboratore deriva dall’attività che svolge per lo stesso committente (utilizzando ambiente, strutture e mezzi di quel committente), la legge riconosce che c’è un vincolo di subordinazione. Quindi, quella persona non deve essere più vista come collaboratore, ma come dipendente e deve essere assunta. La norma però vale per tutti, tranne che per i soggetti iscritti a un albo professionale. Così, una larghissima parte di giornalisti, avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro e altre figure professionali si trovano ad avere tutta la responsabilità e l’incertezza del lavoro autonomo senza avere i diritti dei dipendenti. Insomma, hanno un doppio carico di lavoro: hanno responsabilità e non hanno alcuna tutela. Se stanno male devono lavorare lo stesso, altrimenti non guadagnano. È una follia».
I profili dei cosiddetti autonomi sono gravosi, impegnativi, costosi, costringono i freelance ad avere “un lavoro nel lavoro”. Quante difficoltà ha il freelance nel gestire la propria posizione e che complicazioni ha un commercialista che segue un giornalista “autonomo”?
«Non è semplice occuparsi di un giornalista “non dipendente”, “non contrattualizzato”, “escluso”, “scartato” dal contratto ufficiale che regola il lavoro giornalistico in Italia. Il freelance ha una difficoltà alta, già il fatto che vada a chiedere consulenza a un commercialista significa che non è in grado di gestire da solo il proprio profilo. La sua posizione non ha un inquadramento chiaro. Non esiste una guida per il giornalista “autonomo”: il freelance si può trovare in tante e diverse condizioni e non c’è un riferimento normativo che consenta di inquadrare in modo univoco il suo profilo. Come commercialista cerco di capire chi ho di fronte e se ha compreso fino in fondo cosa deve fare dal punto di vista fiscale per gestire la sua posizione. Poi devo studiare le leggi e la loro evoluzione. Non è una gestione lineare che una volta impostata va avanti da sé: ogni anno ci sono delle piccole modifiche che spostano un po’ le cose e quindi ci si deve aggiornare continuamente».
Qual è la tipologia di giornalisti che segui?
«In generale, sono giornalisti che non hanno grossi redditi, i classici freelance che si adattano a fare un po’ di tutto, dall’ufficio stampa di un evento alla collaborazione con una testata. Poi ci sono dei collaboratori a partita Iva che lavorano in modo stabile con società editrici ma hanno incarichi professionali come autonomi. La questione di fondo per tutti è quale regime fiscale adottare per avere le condizioni più convenienti. Il problema più grosso è l’Iva, perché non avendo compensi alti e non facendo acquisti diventa un costo».
Se i giornalisti sono costretti a fare quattro o cinque lavori diversi quanto possono garantire la libertà di espressione e di stampa ma anche il diritto dei cittadini a essere informati correttamente? Vedo qualche pericolo.
«Il pericolo lo vedo anch’io. In generale, l’informazione rimane a un livello alto, ma è la platea che è totalmente cambiata. Adesso informarsi significa leggere un titolo mentre si scorre una pagina web o Facebook, quella è la notizia, senza sapere chi l’ha scritta o qual è il contenuto. Quindi, le notizie inventate, false diventano facilmente virali. L’assurdità è che anche le false notizie diventano notizie».
Oggi si parla molto di post-verità, si mette in discussione il ruolo della stampa e i professionisti dell’informazione sono costretti a fare qualsiasi cosa per guadagnare quattro soldi.
«Il valore dell’informazione è diverso rispetto a cinquant’anni fa. Oggi chiunque può scrivere qualsiasi cosa con qualunque mezzo e arrivare a tutti. Allora, non so quanto un giornalista possa ancora affermare “io sono iscritto all’Ordine, ho queste credenziali e dunque l’informazione la devo fare io”. E non so chi sta dall’altra parte (il fruitore) come possa recepire il giornalista iscritto all’Ordine, il percorso che ha fatto e la professionalità che mette in gioco. Penso che non interessi a nessuno che un giornalista abbia un codice etico e una deontologia professionale da osservare».
Oggi moltissimi giornalisti sono “non dipendenti” e hanno grosse difficoltà a instaurare rapporti di collaborazione con i diversi committenti. Cosa si può fare per aiutarli?
«Bisogna rendere i giornalisti collaboratori consapevoli del ruolo e della posizione in cui stanno lavorando, spiegare loro cosa vuol dire da un punto di vista legislativo e fiscale. È necessario chiarire, magari con corsi di formazione, quali sono i mezzi per gestire il loro profilo, per metterli in grado di contrattare con l’editore o con qualunque altro committente. Bisogna illustrare tutti gli aspetti che riguardano la loro posizione di “non dipendenti”: come si fa un contratto, una fattura, un business plan. Magari istituendo uno sportello gratuito di consulenza con il patrocinio dell’Ordine dei giornalisti, meglio se presso l’Odg. Credo sia necessario accompagnare i giornalisti anche durante la fase di contrattazione e se il supporto lo dà l’Ordine si qualifica ancora di più il servizio».
Alla luce di quanto abbiamo detto fin qui, come possiamo chiudere questa chiacchierata?
«Stiamo parlando del ruolo del giornalista freelance e quindi di cosa deve fare nel suo status di lavoratore autonomo prima che di giornalista. L’auspicio è riuscire a dare, magari con il supporto dell’Odg, maggiore consapevolezza ai professionisti, partendo dalle cose che non vanno bene, dai motivi per cui si è arrivati a questa situazione, che non sappiamo come si potrà evolvere. Però, è già molto importante rendere i giornalisti consapevoli del ruolo e dello status che hanno per aiutarli ad affrontare qualsiasi scenario si possa presentare».
Hai fatto un’affermazione che costringe a indirizzare uno sguardo diverso sulla professione e cioè che oggi bisogna avere la consapevolezza di essere prima lavoratori autonomi o comunque “non dipendenti” e poi giornalisti. È una svolta epocale.
«Sì, purtroppo è così. Un tempo, in un mondo dove non c’era nessuna connessione Internet, un giornalista veniva inviato nel paese più remoto del mondo per fare un reportage e doveva preoccuparsi soltanto di fare il giornalista, studiare un paese, un avvenimento e raccontarlo, perché aveva un editore che gli pagava lo stipendio e gli permetteva di vivere. Adesso il mondo è cambiato, i mezzi di comunicazione consentono di arrivare ovunque, di osservare tutto e anche la figura del giornalista si è trasformata: prima di tutto è un lavoratore autonomo, poi un giornalista. Si è ribaltato il rapporto con l’attività informativa. È una grande svolta».
Franca Silvestri
ph Luigi Moscaritolo